di Claudio Cavazzuti
(9 Luglio 2018)
I referendum, come qualsiasi altra occasione di espressione democratica, bruciano tutti i filtri della propaganda mediatica e ti sbattono in faccia la pubblica opinione. Per noi è una benedizione, una volta ogni tanto, poter testare teorie sociali su numeri ed evidenze dirette, anziché su percezioni e fonti frammentarie. E facciamocene una ragione: l’archeologia nel mondo è ormai scienza sociale e bene lo sa chi partecipa ai bandi per i finanziamenti alla ricerca, come chi, sul binario parallelo, lavora a contatto col pubblico. Non prestare attenzione e azione al contemporaneo rischia di relegare l’archeologia fra le scienze dell’antichità, condannandola quindi all’irrilevanza sociale.
Un’occasione unica per riflettere sui meccanismi socio-politici in corso e su quale archeologia vogliamo per il futuro ce la fornisce il caso Brexit, i suoi postumi e l’hangover collettivo che qui in UK ancora domina più sovrano della monarchia stessa.
A distanza di due anni dal referendum, il Regno Unito deve ancora elaborare il lutto. O, più propriamente, si arrovella per trovare l’accordo migliore. Non se ne discute solo ai piani alti, ma anche nei pub, così come all’università, uno dei comparti che più risente dello scossone anti-europeo. Ma in che misura? Quali ripercussioni vediamo già nel nostro settore?
Se ne è parlato un paio di settimane fa in un acceso workshop-tavola rotonda tenutosi al dipartimento di archeologia della Durham University dal titolo “Building Bridges between Iberian and British Archaeology”, organizzato da un gruppo molto attivo di colleghi iberici, Blanca Ochoa, David González-Álvarez, Francisco Martínez-Sevilla e Jonathan Santana-Cabrera.
In quella occasione è emersa la frattura sociale profonda che il referendum ha certificato fra centri e periferie del sistema, una fotografia lucidissima del modello core-periphery mutuato dalla World-System Theory di Wallerstein (v. anche Kristiansen, Bintliff, etc.). La mappa del voto mostra esattamente questa dinamica polarizzata: chi risiede nei centri maggiori e più beneficia del flusso di beni, denaro e idee dal continente ha scelto di rimanere parte del network sovranazionale, mentre gli abitanti delle aree marginali e rurali hanno sfruttato l’unica chance concessagli per bruciare i ponti (fig.1).
Sia che simpatizziamo con i leavers o i remainers, questo è il risultato; e il mio scopo qui non è dare giudizi politici, ma discuterne, soprattutto per quel che riguardo le implicazioni sul futuro dell’archeologia.
In un recente, interessante libro intitolato “The Road to Somewhere. The populist revolt and the future of politics” (fig.2), il giornalista David Goodhart lega le due propensioni al voto a un’efficace contrapposizione fra due categorie di persone, due prototipi umani ampiamente distribuiti nel globo, ma emersi con prepotenza nel corso delle vicende recenti: i cosiddetti “somewheres” (per lo più pro-Brexit) e gli “anywheres” (per lo più anti-Brexit):
“The old distinctions of class and economic interest have not disappeared but are increasingly over-laid by a larger and looser one –between the people who see the world from Anywhere and the people who see it from Somewhere. ‘Anywheres’ dominate our culture and society (p.112)
Il grado di mobilità, insieme alla percezione del mondo che porta con sé, diventa così il discrimine principale. Nella definizione di Goodhart, gli anywheres sono più mobili, cosmopoliti, portatori di idee liberali (specialmente delle libertà individuali), vivono prevalentemente nelle città medie, grandi e meglio connesse, si caratterizzano per un tipo di lavoro più intellettuale, un tipo di conoscenza e competenze a-territoriali, che possono essere cioè spese efficacemente in qualunque parte del globo e che di norma garantiscono loro salari più elevati. Qualcuno potrebbe dire l’establishment, qualcun’altro la chiama “élite cognitiva”, ma non lo è necessariamente o esclusivamente, anche perché si stima che in Inghilterra, come negli altri paesi occidentali con leggere variazioni, gli anywheres rappresentino circa il 25% della popolazione (v. note al primo capitolo).
Dall’altra parte ci sono i somewheres, circa il 50% della popolazione, più radicati sul territorio, con esperienze ed expertise più locali, residenti in aree rurali o meno nodali, più affezionati alle tradizioni e ai doveri verso la comunità che alle libertà individuali.
Ovviamente non è tutto bianco o nero. Ci sono anche gli inbetweeners, il restante 25%, quelli che fanno pendere la bilancia dall’una o dall’altra parte. Fra le posizioni intermedie ci sono le esperienze miste, due esempi fra tutti: gli anywheres con un forte radicamento sul territorio (ad esempio spesso le elite locali), o i somewheres che emigrano per lavoro e acquisiscono un modo di pensare più cosmopolita.
Consiglio la lettura del libro, però qui mi interessa vedere se è possibile applicare la distinzione anywheres e somewheres al settore dell’archeologia e come la relazione fra di loro può condizionare il futuro della disciplina.
Nel rapporto DISCO 2014 della C.I.A. (Confederazione Italiana Archeologi) si stima che in Italia più della metà di chi lavora in archeologia lo fa somewhere, ossia in un’istituzione territoriale con finalità prevalentemente territoriali, mentre circa un terzo in un ente di ricerca, soprattutto università, a vocazione necessariamente più “globale” (Pintucci & Cella, p. 16). Questo non significa che le università non operino sui territori (v. l’importanza dell’“impact” sociale nei progetti di ricerca) o che, al contrario, non esistano musei orientati verso un target più ampio di quello locale (soprattutto nei grandi centri, assai meno nelle aree marginali), ma la tendenza alla polarizzazione esiste, specialmente per quel che concerne i destinatari della ricerca: la popolazione locale o un’audience nazionale/internazionale.
Pensiamo anche alle differenze impressionanti fra le modalità di selezione dei funzionari MiBACT e quelle che riguardano le carriere di ricerca. Da una parte le preselezioni si basano su test a crocette su tematiche per l’80% almeno non inerenti alle discipline archeologiche, come a testare di più la capacità di abnegazione che la competenza scientifica del candidato, dall’altra i criteri usati per gli enti di ricerca si concentrano sui titoli accademici.
Diamo anche un’occhiata ai salari (p. 97). I salari massimi degli archeologi anywheres (prevalentemente accademici) ammontano a 70000 euro l’anno, mentre coloro che lavorano sui territori, sia nel settore pubblico (musei, soprintendenze, etc.) sia privato (società, cooperative, freelance, etc.), i nostri somewheres, arrivano al massimo a 36000. Stesso trend anche in UK.
Va da sé che questa disuguaglianza salariale non facilita la collaborazione interpersonale e inter-istituzionale, e tende a creare tensioni all’interno della categoria, soprattutto quando la mobilità fra i vari rami del settore è quasi nulla come accade in Italia.
Fortunati gli accademici? Tutt’altro, almeno non i giovani. Finiti i bei vecchi tempi, in Italia come in UK o altrove, fatte le dovute differenze. La “rivoluzione accademica” degli ultimi anni, come quella industriale dell’800 (fig.3), ha trasformato il lavoro di ricerca in una catena di montaggio, con ricercatori spesso alienati e precari, costretti a produrre articoli in quantità prima ancora che con qualità, mentre i grandi publisher col potere di accettarli (facendosi pagare a peso oro per l’open access) o rifiutarli, tengono in pugno il loro destino professionale. Anche se questo clima “fordista” è radicato negli istituti di ricerca degli Stati Uniti o del nord Europa (ma in misura crescente anche in Spagna) più che in Italia, è facile prevedere che anche il nostro paese, coi suoi tempi, si adeguerà.
Il Regno Unito, nonostante l’esito del referendum, continua a detenere la golden share dei grants, sia per quello che riguarda le Marie Curie Fellowship, sia come istituzioni ospitanti gli ERC starting, consolidator e advanced grant.
L’emorragia dei cervelli europei verso le istituzioni britanniche continua e non sembra attenuarsi. Si vedrà all’uscita vera e propria dalla UE (29 marzo 2019), ma il sospetto è che su questa parte dell’accordo vi sia una certa flessibilità da ambo le parti, anche perché ci si chiede se la maggioranza delle istituzioni dei paesi meridionali e orientali dell’UE siano preparate, tanto dal punto di vista amministrativo e delle strutture quanto della mentalità e della lingua, ad ospitare ricercatori stranieri.
Sempre parlando di politiche accademiche a livello europeo, uno dei problemi principali è la tendenza a non premiare i progetti di ricerca che prevedono attività di scavo e con esse i lavori monografici, in favore invece di quelli che hanno come obiettivo una serie di articoli mirati su riviste sì di rilevanza internazionale, ma assolutamente settoriali, quindi privi di impatto sociale per le comunità e i territori. I motivi del diniego sono vari, ma questo pone un’ulteriore questione: che tipo di archeologia vogliamo per il futuro? Se l’allocazione delle risorse seguirà il trend attuale, vedo allargarsi a dismisura il baratro tra archeologia del (e per il) territorio, degli scavi di emergenza, delle identità locali, e archeologia “globale”, in un riflesso di ciò che è accaduto con il caso Brexit, ma anche nelle ultime elezioni politiche (fig.4) e del referendum del 4 dicembre 2016 (fig.5) in Italia. Più la faglia core-periphery si amplia, più c’è bisogno di fare come i nostri colleghi iberici: “building bridges”, specialmente fra anywheres e somewheres, rafforzando prima di tutto la mobilità professionale, ma anche le politiche di integrazione e di riduzione delle diseguaglianze fra le due categorie.
Invece ho l’impressione di osservare l’esatto contrario. Uno degli aspetti più controversi della faccenda è che a prescindere dalla loro nazionalità, gli archeologi (in particolar modo accademici) e in generale gli operatori del settore cultura hanno mantenuto nei confronti della cosiddetta “rivolta populista” che attraversa l’Europa e gli Stati Uniti una posizione anywhere, diffondendo su stampa e social un messaggio liberale e globalista che, comunque la si pensi, rimane evidentemente inascoltato se non addirittura ridicolizzato dall’altra parte della barricata (si veda l’efficace critica al cosmopolitismo di sinistra da parte di Galli della Loggia sul Corriere del 26 giugno).
Se è vero che ad ogni anywhere corrispondono statisticamente due somewheres, e se è corretto dire che (ancora) “dominano la nostra cultura e società”, allora dispongono anche del potere social-mediatico per ricostruire i ponti, rivedendo una parte del loro pensiero, soprattutto quella che negli ultimi 30 anni ha messo l’individuo, le sue libertà e le sue ambizioni davanti ai doveri verso la comunità (parola cara alla sinistra), verso il prossimo (per i cattolici), verso la madrepatria (per i conservatori): tre facce della stessa medaglia.
Molti si sentiranno bersagliati dalla provocazione e già immagino alcune delle possibili reazioni. Come si fa ad incatenare le discipline umanistiche alla terra? Le scienze umane sono le ali, la chiave per ogni dove. L’uomo è universalis, non particolare. Travalica e trascende lo spazio fisico ed epistemologico. Particolari sono i gruppi, le corporazioni, le singole identità e l’identità è mito, ossessione, invenzione, finzione, limite, pregiudizio, parola avvelenata (Remotti 1996, 2010). A Remotti risponderei che se ritiene che fra i somewheres non si sappia riconoscere il “valore dell’alterità”, e che si coltivi l’ossessione al “noi” puro, la sua esperienza di questa categoria di individui, almeno nel nostro paese, è piuttosto limitata. La sua è un’idea forse non del tutto sbagliata, ma molto, molto parziale, schierata e a sua volta costruita.
Questo non significa che l’archeologia non sia scienza umana: è humanities, con l’ambizione da qualche tempo di fare la dura, ma anche con la frustrazione di non essere esatta. Ma se è vero che è anche scienza sociale, allora da qualche parte (somewhere) dovremmo pure cominciare ad applicarla.
Riferimenti Bibliografici
Bintliff, J. 1997. Regional Survey, Demography, and the Rise of Complex Societies in the Ancient Aegean: Core-Periphery, Neo-Malthusian, and Other Interpretive Models. Journal of Field Archaeology 24(1): p.1–38.
Goodhart, D. 2016. The Road to Somewhere. The Populist Revolt and the Future of Politics. Oxford: Oxford University Press.
Harding, A. 2013. World Systems, Cores, and Peripheries in Prehistoric Europe. European Journal of Archaeology 0(0): p.1–23.
Kristiansen, K., & Larsson, T.B. 2005. The rise of Bronze Age Society. Travels, Trnasmissions and Transformations. Cambridge: Cambridge University Press.
Pintucci, A., & Cella, E. 2014, Discovering the Archaeologists of Italy. 2012-14. Roma: Confederazione Italiana Archeologi.
Remotti, F. 1996. Contro l’identità, Roma-Bari: Laterza.
Remotti, F. 2010. L’ossessione identitaria, Roma-Bari: Laterza.
Rowlands, M., Larsen, M., & Kristiansen, K. 1987. Centre and periphery in the ancient world. Cambridge: Cambridge University Press.
Wallerstein, I. 1974. The Modern World-System. Capitalist Agriculture and the Origins of the European World-Economy in the sixteenth Century. New York: Academic Press.
Claudio Cavazzuti è Marie Skłodowska-Curie Fellow al Dipartimento di Archeologia dell’Università di Durham (UK), coordinatore del progetto Ex-SPACE (Exploring Social Permeability in Ancient Communitites of Europe) e funzionario antropologo fisico presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo. Collabora con ISMA-CNR e con diversi Musei Civici e Nazionali.
Permalink //
Letto con molto interesse, grazie a Maja Gori, da un archeologo ormai da tempo ormai pensionato.
Gabriele Baldelli
Permalink //
Caro Gabriele, grazie per averci letto! Dobbiamo ringraziare il nostro collega e amico Claudio Cavazzuti in realtà, che ha voluto inserire questo ulteriore lavor nella sua già strapiena agenda!
A rileggerci presto
Martina Revello Lami
Permalink //
Credo che l’articolo lasci da parte una categoria molto importante, a cui sento di appartenere: i ‘nowhere’, quella categoria di ricercatori viaggiatori il cui senso di appartenenza è talmente sfumato da diventare un’ossessione. ‘Somewhere, you do not belong, nowhere you belong’. Questa è la categoria che ha abbracciato il concetto di mobilità e che è costretta ad un tentativo enorme di appropriazione dei luoghi che attraversa e di riappropriazione del luogo d’origine. Io questo tentativo di riappropriazione l’ho messo in atto nell’ultimo anno con il mio progetto sui terremoti, ma timidamente. Ho quasi paura di bussare alle porte delle comunità affette, perché temo che possano dirmi: “che ci fai qui? Tu sei uscita!”. Invece mi hanno sempre accolta con calore, eppure io continuo a sentirmi sulla pelle la condizione di chi vive nella “terra di mezzo”, lo squilibrio tra la prospettiva etica e quella emica. Il luogo per me esiste solo come ‘terra di mezzo’, la città di Irene descritta da Calvino: “La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui si arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene. L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà”. NOW-HERE, NOWHERE…
Permalink //
Cara Paola, grazie per la lettura e del commento, molto pertinente.
Ho utilizzato le tre categorie di David Goodhart, anywheres, somewheres e inbetweeners per legare il mio punto di vista al suo. Fra l’altro anche il titolo rimanda al titolo del suo libro, come avrai notato.
Capisco bene a cosa ti riferisci e penso che Goodhart ti collocherebbe fra gli inbetweeners, ossia coloro i quali pur avendo acquisito (per scelta o necessità) attraverso i loro viaggi competenze spendibili ovunque (anywhere), si sforzano per rientrare sul territorio e dare il contributo alle comunità locali, che in definitiva -bellissimo il tuo caso- ti accolgono con calore.
Forse sbaglio nell’articolo a pretendere dagli anywhere un cambio di passo. Forse è nell’infaticabile lavoro e nella spola degli inbetweeners fra centro e periferia, la soluzione a molti problemi.
Permalink //
Caro Caludio,
grazie per gli spunti di riflessione e per la risposta. Leggerò certamente il libro. Speriamo di incontrarci presto…somewhere!
Permalink //
Ho letto con piacere e interesse il tuo articolo e sono pienamente d’accordo con la tesi di fondo .
Nella differenza tra somewheres e anywheres c’è il binomio di chi sostiene ‘l’archeologia per il contesto’ o di chi al contrario intende e sostiene il
‘contesto per l’archeologia’. E la differenza, come hai ben messo in luce, si misura in primo luogo nelle diverse retribuzioni, generalmente maggiori per chi sceglie la seconda strada. Eppure esistono tanti archeologi (probabilmente ancora la maggioranza) che hanno a cuore lo studio, la tutela e la valorizzazione di un territorio specifico. Si tratta di una scelta etica e anche in un certo senso politica dal momento che in genere significa battersi e fare qualcosa per un ‘bene comune’. Di certo riporta l’archeologia a una dimensione umana fatta di relazioni con un territorio e una comunità. La sola strada per scongiurare un archeo-exit è migliorare la comunicazione e creare ponti possibili tra quanti a vario titolo lavorano in archeologia così come tra archeologi e le comunità . Condividere l’archeologia dei territori con quanti vivono il territorio in modo da rendere l’archeologia davvero scienza sociale.
Permalink //
Sarebbe da organizzare un convegno.
Permalink //
Caro Giacomo, grazie di aver letto e commentato. Chi vive o frequenta le aree non nodali del paese, che a sua volta -ricordiamolo- non è un core del sistema più grande, ma una periferia, sa quanto lavoro viene fatto quotidianamente dagli archeologi somewhere, pur nella ristrettezza dei salari e nella precarietà di molti dei contratti.
Per altro è nelle periferie che si realizza la contaminazione e l’integrazione con l’altro, attraverso il lavoro e la convivenza più o meno forzata (non in centro a Torino, non ai Parioli).
Tornando a che tipo di archeologia vogliamo per il futuro, mi viene in mente anche a cosa è successo con gli ultimi grandi progetti sul DNA: grandi nomi/team di ricerca ricevono finanziamenti di diversi milioni di euro (in alcuni casi dalla UE, quindi soldi dei contribuenti) per analizzare una serie di genomi da tutta Europa. L’estrazione e l’analisi di un genoma costa attorno ai 600 euro. Se facciamo i conti a spanne può costare meno del restauro di un singolo vaso, o comunque infinitamente meno di qualsiasi scavo. Con un prezzo molto inferiore si costruisce così una ‘narrativa’ sulla mesolithic-neolithic transition, o sulle ‘origini dell’europa’ nel III millennio, praticamente bypassando tutto il lavoro archeologico a monte. Creando poi i noti problemi a valle. Qual è il reale “ritorno” (impact) di queste verso le comunità locali? Secondo me ci potrebbe essere, ma sinceramente non vedo i PI così impegnati sul fronte locale. Molti degli articoli finiti su Science e Nature (a parte quello sui Micenei/Minoici) non hanno avuto alcun eco sui nostri giornali nazionali.
Eppure il sistema di finanziamento e pubblicazione tende a premiare molto di più questo approccio al momento. Io penso dovrebbe essere più bilanciato, fra quello che tu giustamente chiami ‘archeologia del contesto’ e ‘contesto per l’archeologia’ (o genetica). E sono d’accordo, la scelta è politica, per questo secondo me in un regime democratico tutti i comparti, archeologia compresa, risentono del trend politico generale.
Permalink //
Partendo dagli interessanti spunti lancianti da questo articolo abbiamo provato a partecipare anche noi alla discussione sul tema Usando paragoni con alcuni importanti brani musicali abbiamo provato a discutere di tre possibili “vie di fuga”: più libertà e solidarietà nel mondo dei BBCC e soprattutto una ridistribuzione della ricchezza nel mondo della ricerca. Sperando di poter continuare il dibattito vi incolliamo il link al nostro articolo:https://www.dinamopress.it/news/archeologia-rap-game/
Permalink //
Cari Agostino e Francesca, grazie infinite non solo per aver accettato la sfida di Ex Novo e riflettuto insieme a noi sul ruolo della nostra professione nel futuro, ma soprattutto per averlo fatto in maniera creativa e appassionata. Considerata la vostra etá, direi che il futuro siete decisamente voi, e visto da qui sembra promettere bene. Grazie anche a Dinamopress per aver ospitato sulle sue pagine un dibattito che altrimenti rimarebbe confinato tra gli addetti ai lavori, facendoci perdere ogni ragione culturale e sociale.
Permalink //
Non essendoci spazio per i commenti su dinamo press, rispondo qui.
DUE TERZI DI UTOPIA
Cari Agostino e Francesca, grazie per la risposta. La mia replica sarà svedese.
“Libertà, redistribuzione, solidarietà” è un’”amata trinità” che più o meno sottoscriverei anche io, anche se in ordine inverso. La vostra “utopia”, l’Eldorado che invocate esiste davvero, ma solo per due terzi. Due terzi di utopia. È la Svezia, dove il welfare state dagli anni ‘70 in poi si è orientato proprio alla creazione di una società in cui, attraverso la redistribuzione della ricchezza, tutti avessero la libertà di fare ciò che amavano e fossero indipendenti dalle necessità di ordine sociale ed economico e dai vincoli materiali che tradizionalmente legavano gli individui.
Lo spiega molto bene il film-documentario che conoscete “The Swedish Theory of Love” di Erik Gandini (2015): cosa succede a una società in cui, per decisione politica, lo stato ha pianificato e infine realizzato la piena indipendenza, la libertà da qualsiasi vincolo materiale per ciascun individuo?
Il risultato dell’esperimento svedese è stato, in estrema sintesi, + libertà = + solitudine.
E quindi anche meno solidarietà. Potrebbero aver sbagliato qualcosa i nostri amici svedesi, ma ho il sospetto che si tratti di una meccanica generale, che fa parte proprio dell’essenza umana.
Lo dice Zygmunt Bauman alla fine del documentario: le persone che vivono nell’indipendenza sociale ed economica perdono la loro capacità e il piacere di negoziare con gli altri, il piacere dell’interdipendenza.
Non credo perciò che la soluzione individuata degli Assalti Frontali «Dovete darci il denaro, il denaro / dovete darci il denaro e poi ne riparliamo» sia “semplice”, trattandosi di soldi pubblici, né, stando agli esempi noti, efficace, per ottenere il progresso scientifico, sociale, morale etc. che tutti vorremmo. E non sono nemmeno certo che da sola sia sufficiente a debellare il virus della competizione.
Diciamo che un “reddito minimo” del ricercatore, probabilmente, potremmo anche averlo in un futuro prossimo se il governo attuale centrerà l’obiettivo (assai arduo) nel corso della legislatura. La ricerca però non prevede solo ore-uomo, ma anche materiali di consumo, viaggi, spese di ogni tipo che esulano dal reddito personale e che fanno di essa un’operazione molto costosa. Forse non è possibile (ed efficace) dare soldi a tutti, ma certo un deciso cambio di rotta verso redistribuzione più equa, sono d’accordo, è fondamentale.
SULLA LIBERTA’
Sul concetto di libertà nelle democrazie liberali, avrei molto da dire, ma mi impongo brevità. Dico solo che laddove esistono forti pressioni sociali e mediatiche che in qualche modo “incanalano” le intenzioni e le legittime aspirazioni dei singoli verso modelli preconfezionati, il rischio che questi perseguano non vere libertà ma illusioni è alto. Non è che possiamo amare e desiderare solo ciò che “ci viene conosciuto”?
Penso sia capitato a tutti che facendo una cosa per dovere, anziché “ciò che amiamo”, ci siamo resi conto che quell’esperienza reale (e non aspirazione ideale) ci gratifica assai di più e magari ci ha svelato che per quella cosa nuova e inattesa, nata da una necessità invece che da una libertà, siamo pure tagliati e facciamo di più per noi stessi e per gli altri.
SULLA DIVERSITA’ E LA DISTRUZIONE DELLE FRONTIERE
“Più che costruire ponti dovremmo distruggere le frontiere”.
La cancellazione dei confini tra popoli, stati, entità politiche è la battaglia su cui il capitalista e il comunista più radicale si troverebbero d’accordo, anche se per ragioni diverse. Per questo abbiamo oggi la globalizzazione, per questo “patto” fra socialisti e liberali. La mobilità di cose e persone in seno alla globalizzazione ha creato grandi centri cosmopoliti nei quali agli esempi positivi di contaminazione e ibridazione culturale, si contrappone una generale perdita dell’identità dei luoghi, e una triste conformità a un modello transculturale, evidentemente artificiale, che in fin dei conti non piace veramente a nessuno. È solo più confortevole e politicamente corretto.
I centri cosmopoliti sono sempre esistiti, si dirà, ma è la negoziazione con il territorio locale che è venuta a mancare del tutto, come ha dimostrato la rivolta delle periferie in tutte le ultime chiamate al voto.
L’essere “globalizzato” ormai è un’identità di per se stessa, che ovunque si contrappone al “locale” di turno, additato come reazionario solo perché escluso o non partecipe del network della globalizzazione. L’anywhere, a sua volta, in una spirale interminabile di “je t’accuse”, viene identificato come il colpevole livellatore di identità.
La mia esperienza è che anche in contesti fortemente cosmopoliti il grado di omofilia è altissimo. Le persone tendono, quando risiedono a lungo in un luogo, a interagire di più con i più simili. Quando siamo all’estero possiamo integrarci, ma la lingua, la mentalità, il tipo di humor, le abitudini (possiamo dire la cultura?) sono un forte fattore aggregativo. Non penso che questo sia un male, quando non sfocia in un rigetto dell’altro.
Se ho parlato di costruire ponti, è perché credo nel valore della diversità, un valore da tutelare dalla globale tendenza al conformismo. Al di là dei “muri”, eretti artificialmente per proteggersi non si sa bene da che (da condannare), esistono ancora confini geografici, storici, culturali, epistemologici, eccetera, ai quali le persone sono intimamente affezionate o all’interno dei quali si sentono al sicuro. Per questo le frontiere vanno rispettate senza che per questo diventino invalicabili. Come dice Bauman, l’esistenza della diversità ci obbliga ad allenare la nostra capacità di negoziare e ad onorare le leggi sacre dell’ospitalità.
Contro l’intenzione di “distruggerle” è probabile che, come vediamo in giro, molti somewheres si ribellino e si ottenga il risultato opposto.
Forse ci sarà un giorno in cui non ci saranno più barriere. Ma non sarà tanto un’imposizione dall’alto (o dal basso) a creare queste condizioni, quanto, penso, l’accettazione che diversità, competizione e conflitto fanno parte della natura umana e come tali, se vogliamo “restare umani”, vanno rispettati, riducendo col dialogo le loro derive più ripugnanti.
Permalink //
C’è uno strano paradosso in un referendum della portata di quello sulla Brexit. Indetto per consegnare al rigore della legislazione ciò che divideva il Paese – quindi per unificare un Paese diviso – ha finito per dividere un Regno Unito.
Permalink //
Caro Claudio, grazie per avere letto.
Se i referendum non dividessero non ci sarebbe bisogno di farli. Vale anche per noi (repubblica/monarchia, aborto, divorzio, etc.), altrimenti che democrazia sarebbe?
Quando si è votato per la Costituzione Europea nel 2005 in Francia e Paesi Bassi, la maggioranza dei cittadini si espresse contro la ratifica, il ché poi spinse gli altri paesi a fare ratifiche parlamentari, al posto dei referendum.
Consultare il popolo, in regime di suffragio universale, è importante e dovrebbe essere fatto più spesso. Spendiamo milioni per fare sondaggi ogni settimana…non scandalizziamo che esistano posizioni diverse che necessitano mediazione.