by Alessandro Pintucci
12 June 2020
Tutto l’ambaradan intorno alla rimozione dei monumenti agli schiavisti: critica (un po’) ragionata*
[For English see below]
Scrivo questo pezzo di getto, nei giorni delle proteste in America e poi in tutto il mondo, per la morte di George Perry Floyd, un uomo afroamericano che a Minneapolis è morto soffocato dopo essere stato brutalmente arrestato e trattenuto a terra per 9 minuti da un poliziotto, per aver pagato un pacchetto di sigarette con una banconota da 20 dollari apparentemente falsa.
L’onda della protesta, che ha portato in piazza migliaia di persone in tutti gli Stati Uniti, con scontri violenti e anche alcuni morti, si è rapidamente propagata in tutto il mondo occidentale: il tema della violenza della polizia e del razzismo contro le comunità afroamericane ha scosso in maniera forse irreversibile l’opinione pubblica, soprattutto quella parte che da anni si batte per un cambiamento che stenta a vedersi.
In questo piccolo intervento, non mi occuperò della questione centrale di questo dibattito, certo di poter dire solo cose scontate e banali, ma della mia particolare posizione su un fenomeno collegato, quello della rimozione, soprattutto in Europa, di statue e simboli legate alla rappresentazione mitizzata ed eroica di personaggi che si sono arricchiti con la tratta degli schiavi africani.
Accade in questi giorni a Bristol, per esempio, che un nutrito gruppo di militanti antirazzisti, dopo aver a lungo chiesto al Comune di rimuovere la statua di un personaggio, di cui non vale la pena di ricordare il nome, che fece la sua fortuna trasportando qualcosa come 100000 schiavi dall’Africa in America, abbia deciso, in parte anche sull’onda della mobilitazione globale per la morte di Floyd George, di rimuovere la statua e di gettarla in acqua. Un atto di rottura, definitivo, che il comune di Bristol avrebbe a lungo potuto evitare in tanti modi, spostando la statua o mettendo una targa che commemorasse le vittime, per esempio, come chiedevano i militanti.
In questi stessi giorni il Museum of London, affida alla propria pagina Facebook, un post in cui annuncia di aver intrapreso le pratiche per la rimozione di una statua di un altro schiavista, collocata vicino la sede dei Docks del museo, e di altri elementi presenti nell’area, che ricordano il passato coloniale e schiavista delle compagnie che lì avevano sede.
È importante sottolineare che sia il Museum of London, che quello di Bristol hanno dedicato una parte importante della propria esposizione al racconto delle vicende storiche legate alla tratta egli schiavi e alla colonizzazione del Nuovo Mondo.
Dunque tutto bene. Eppure. Eppure qualche dubbio io lo nutro, evidentemente non sulle buone, anzi buonissime intenzioni degli autori del gesto di Bristol e della Direzione del Museum of London.
Discutendo con altri colleghi e leggendo le reazioni di altre persone che si occupano di Cultural Heritage, ho potuto constatare che le posizioni sono abbastanza diverse.
Chi difende la posizione della rimozione di questi simboli, sostiene, non senza valide ragioni, che ciò che rende un bene Heritage è legato al contesto: un oggetto, una statua, un monumento, possono essere considerati in un momento storico come elementi da proteggere, rappresentando quel tempo o la sua eredità, e possono poi diventare elementi da cancellare, dimenticare, in un periodo diverso: è accaduto e accade tuttora con le opere dei regimi totalitari e dittatoriali, si pensi alle scene recentemente passate anche in televisione dell’abbattimento delle statue dei vecchi eroi comunisti nell’Europa orientale, o alle scene dell’abbattimento delle statue di Saddam Hussein in Iraq, ma anche nel remoto passato, alla pratica di abradere da un monumento il nome di un imperatore caduto in disgrazia o di abbatterne l’effigie (toccò anche al colosso di Nerone).
Ma in questi casi appena elencati, la vicinanza materiale e temporale delle persone con i fatti e i personaggi che quelle statue avevano eretto e rappresentato, dà loro un diritto, sacrosanto, di scegliere cosa fare di quei simboli, anche e soprattutto di distruggerli. Mi pongo, invece, la domanda se questo comportamento abbia senso molti anni dopo quegli avvenimenti, quando la storicizzazione di quegli eventi e di quegli oggetti, li trasforma, ne diminuisce la carica ideologica, con l’allontanarsi dei ricordi dolorosi e vivi nelle menti dei sopravvissuti.
E infatti in tutta Europa, i monumenti del fascismo e del nazismo, che per le ragioni più varie non furono distrutti con la guerra o immediatamente dopo, sono stati preservati, pur con diversi atteggiamenti.
Si pensi alla vicenda dello stadio di Norimberga, in Germania, che ha ospitato le adunate generali del regime Nazista, sospeso tra le esigenze di conservazione e tutela di un edificio con una forte carica storica e l’impossibilità oggettiva di spendervi soldi pubblici o privati per restaurarlo: chiunque lo abbia visitato, ne avrà tratta l’amara sensazione che si attenda con fiducia che cada da solo.
Diverso l’atteggiamento con alcune opere in Italia, si pensi al complesso dell’EUR o del Foro Italico a Roma: in più di un’occasione si è detto che andrebbe cancellato il nome di Mussolini dall’obelisco al centro del complesso sportivo, ma ci si è ben guardati dal farlo.
Ma poi cosa cambierebbe? La cancellazione del nome di chi volle quel monumento, cancellerebbe forse quel periodo? E non si rischierebbe, al contrario, di rimuovere dalla coscienza collettiva la materialità storica del Fascismo, relegandone i monumenti e le opere a puri elementi di arredo urbano? Alla base vi è l’incapacità di affrontare con la serenità della storicizzazione, un periodo che divise l’Italia e di cui, non a torto, ancora ci vergogniamo.
Mi si dirà che evidentemente, come nel caso delle statue degli schiavisti, quel passato ha ancora profonde radici anche nel presente, che esistono ancora persone la cui esistenza è stata ed è toccata dalle conseguenze delle azioni delle persone ritratte e celebrate da quei monumenti.
Ma se l’elemento che deve guidarci nel decidere se conservare o meno un bene, se considerarlo Heritage, è la sua storicizzazione, un’atarassia collettiva nel leggerlo, allora qual è il tempo che deve passare per poter storicizzare un avvenimento? Chi lo decide?
Se ancora oggi migliaia di ebrei piangono tutti i giorni al Muro del Pianto di Gerusalemme, ricordando la distruzione del Tempio in epoca romana, nel caso la Comunità ebraica lo chiedesse, sarebbe giusto, per lo stesso principio, abbattere l’Arco di Tito al Foro Romano o almeno coprirne i rilievi che celebrano la vittoria dell’Imperatore e la depredazione del Tempio di Gerusalemme?
Ma poi non siamo proprio noi archeologi imbevuti di posizioni processualiste e post-processualiste, a sostenere che il male peggiore per l’archeologia sia scegliere cosa salvare e cosa no? Cosa considerare importante e cosa ignorare?
E quando la rimozione o il tentativo di rimuovere simboli e monumenti, colpisce simboli a cui noi diamo un valore opposto, come è successo recentemente con la nota mozione del Parlamento Europeo che ha tentato di equiparare i crimini di comunismo e nazismo e di condannare l’uso dei simboli comunisti, noi come ci collochiamo?
E in alcuni casi il problema non tocca nemmeno avvenimenti così vicini a noi, si pensi all’intenso dibattito intorno ai monumenti dedicati a Cristoforo Colombo in molti paesi americani: mentre in Europa Genova e Barcellona si contendono l’essere stati la patria dello “scopritore” delle Americhe (altro punto di vista eurocentrico quello della scoperta delle terre, della definizione di occidente e oriente. Vabbè, un altro post), nel continente americano i movimenti antirazzisti e quelli per i diritti dei nativi, chiedono che le statue del navigatore, considerato il simbolo delle stragi compiute in nome della colonizzazione e della tratta degli schiavi, vengano ovunque abbattute e si smetta di festeggiare la ricorrenza del 12 ottobre del 1492.
Al contrario, a proposito di storicizzazione, uno degli atti del nuovo stato unitario italiano, una volta conquistata Roma al Papa, fu l’erezione nel 1889 a Campo de’ Fiori della statua che commemora il rogo di Giordano Bruno nel 1600: nel 1929, durante le trattative che portarono alla firma dei patti lateranensi, il Papa Pio XI chiese la rimozione della statua e solo la paura di disordini come quelli che si erano verificati 40 anni prima portò Mussolini a rifiutare. In compenso vietò che si svolgessero commemorazioni del filosofo presso di essa.
L’ho già detto precedentemente, ma forse vale la pena di dirlo di nuovo: la rimozione dei simboli scomodi o inaccettabili, nei luoghi che sono stati edificati anche grazie ai protagonisti celebrati da quei simboli, non rischia di ripulire la coscienza di quei luoghi senza spiegarne la genesi e l’origine?
Mi spiego meglio: oggi i Docks di Londra sono uno dei miei posti preferiti per prendermi un aperitivo se mi trovo in quella città, sono gentrificati al punto giusto da diventare meta di curiosità e svago per turisti e borghesi in libera uscita; ma quei luoghi sono stati edificati sul sangue di decine migliaia di schiavi prima e di lavoratori poi, che col loro sudore hanno reso ricche le compagnie di navigazione e di commercio che lì avevano sede. È meglio cancellare le tracce del passato abbattendo quelle statue, o spiegare il contesto storico in cui furono erette e il dolore che quei personaggi provocarono? Quando nel 2007 l’Italia scelse di restituire all’Etiopia l’obelisco di Axum, che era stato collocato dopo le guerre coloniali italiane degli anni ‘30 del Novecento a Piazza Capena a Roma, si sviluppò un dibattito sull’opportunità di questa operazione: le posizioni erano divise tra chi sosteneva che fosse giusto farlo, in segno di riconciliazione con un paese che era stato invaso e colonizzato brutalmente dall’Italia, e chi diceva che ormai quelle vicende erano passate e che non aveva più senso restituire quel monumento.
Io mi faccio un’altra domanda: chi sa oggi delle guerre coloniali italiane, del dolore che portarono, dei morti che fecero? La restituzione dell’obelisco, mi sembra, potrà anche aver migliorato i nostri rapporti diplomatici con l’Etiopia, ma ha anche effettuato una sorta di lavaggio della coscienza degli italiani, che con quel gesto si sentono ormai a posto e nel diritto di ignorare ciò che è avvenuto.
Dovevamo tenere l’obelisco? Probabilmente no, ma ho la sensazione che la sua restituzione non abbia avuto un effetto necessariamente positivo sulla nostra consapevolezza collettiva, perché al beau geste non è stata affiancata una operazione di educazione continua a quel periodo e di ricordo di ciò che è stato.
Ma dunque esiste un diritto della collettività a scegliere volta per volta ciò che è o non è degno di essere definito Heritage? Non credo che si possa esprimere una opinione su questo, è un fatto talmente naturale che ciò avvenga, che non si può prendere una posizione a favore o contro; ma questo diritto naturale non è esattamente ciò che ha fatto nascere l’esigenza delle leggi di tutela?
Non è per salvare ciò che un gruppo ridotto di persone, chiamiamola elite, riteneva valesse la pena di essere salvato, che abbiamo scritto le norme di tutela e conservazione dei Beni Culturali, gli accordi internazionali e così via? Allora il cambiamento nella valutazione dell’interesse culturale di un bene, si deve a un cambiamento di umore o di atteggiamento all’interno di quella elite, o a un cambiamento più ampio della coscienza collettiva (ammesso che questa categoria esista e abbia un senso)? Credo che sia nostro compito (nostro inteso proprio come quella elite che della tutela si occupa) analizzare questo aspetto con grande attenzione e onestà, prima di accettare come dato di fatto il puro diritto di un gruppo più o meno autoproclamatosi collettività di distruggere o modificare un bene culturale, anche quando quel gruppo rappresenti in buona parte le nostre idee, come in questo caso.
Durante la rivolta dei gilet gialli in Francia, l’assalto ai monumenti di Parigi è avvenuto in nome della distruzione dei simboli dell’imperialismo francese.
Qualcuno di noi può forse negare che l’Arco di Trionfo sia il simbolo dell’imperialismo della Francia Napoleonica?
Qualcuno di noi è disposto ad accettare che quel simbolo di Parigi e dell’occidente sia distrutto in nome della cancellazione del passato imperiale?
Ognuno risponda come sente, basta che lo si faccia in maniera onesta e non solo pour épater le bourgeois.
*Ambaradan è un termine utilizzato in italiano per definire una situazione di confusione: deriva dalla battaglia dell’Amba Aradam in Etiopia, svoltasi nel 1936, al termine della quale i soldati italiani, comandati dal Gen. Badoglio, compirono una strage di civili etiopi. Badoglio vinse quella battaglia con l’uso del gas iprite. Più tardi fu anche il primo Presidente del Consiglio dei Ministri dopo la caduta del Fascismo in Italia. Il termine è ancora oggi nell’uso comune del parlato e nella toponomastica delle città italiana, senza che se ne ricordi più il terribile significato originario.
Much “ambaradan” about the monuments celebrating slave-drivers: a critical review*
I’m writing this piece while riots are on the rise in America and more globally following the killing of George Perry Floyd, an African American man who died suffocated in Minneapolis. Floyd has been brutally arrested and held on the ground by a policeman kneeling on his neck for an interminable 9 minutes, on the charge of having paid a pack of cigarettes with an allegedly fake 20-dollar bill.
The wave of protests that prompted thousands of people to march through the streets in the United States, causing often violent clashes with police forces, is now quickly spreading throughout the western world: the dramatic act of racism and violence perpetrated by the police against the African American community have perhaps irreversibly shaken the public opinion, especially those fighting since years to see a change that seems difficult to achieve.
In this brief piece, I will not address the central matters of the debate, racism and white supremacy, as I am acutely aware that my contribution could only be rather obvious if not banal. I will however share my personal position on a related phenomenon that is now taking ground especially in Europe, i.e. the removal, especially in Europe, of statues and symbols representing mythologized and heroic figures who made theirs and their countries’ fortunes through the massive trade of slaves.
Few days ago in Bristol a large group of anti-racist protestors – partly on the wave of the global mobilization triggered by the death of Floyd George and the Black Lives Matter movement – tore down and threw into the harbor the statue of a noted slaveholder, whose name is not worth mentioning, suffice to say that he made his fortune by deporting approximately 100,000 slaves from Africa to the Americas. The monument has been a controversial fixture in the city, with repeated calls for it to be removed. This is a radical act of rupture that the city of Bristol could have avoided by relocating the statue or placing a plaque commemorating the victims as repeatedly asked by the protestors.
Few days after the riots in Bristol, the Museum of London has removed from its branch at the docklands the statue of another slave trader and The Commission for Diversity in the Public Realm is now reviewing the city’s landmarks – including murals, street art, street names, statues and other memorials other symbols – recalling the colonial and slaver past of the country.
It is however important to underline that both the Museum of London and that of Bristol have dedicated an important part of their exhibition to display the historical events related to the slave trade and the colonization of the New World.
Well, everything looks just fine, right? And yet I have some perplexities. I have some perplexities not on the evidently good intentions of the authors of the Bristol blitz and the curators of the Museum of London, but while discussing and reading the reactions of other colleagues and professionals involved in Cultural Heritage management I realized that the positions on the matter are far from straightforward and unanimous.
On the one hand, those advocating in favor of the removal of the symbols of our colonial past rightly point out that what makes an asset to be called Heritage depends on the context: objects, statues, monuments, can be considered in a specific historical moment as elements to be protected, representing that time or its legacy, and can then become elements to be erased, forgotten, in a different period: it happened and still happens with the monuments of totalitarian and dictatorial regimes, just think of the scenes recently passed even on television of the demolition of the statues of the old communist patriarchs in Eastern Europe, or the statues of Saddam Hussein in Iraq, but also in the remote past the condemnation of memory, the posthumous punishment by which traitors were effectively erased from history by having their works undone and any mention of their names of effigies forbidden. A radical act that happened also to the Colossus of Nero.
But in these cases the material and temporal closeness of people with the facts and persons that those statues had erected and represented, gives them a sacrosanct right to choose what to do with those symbols, also and above all to destroy them. Instead, I wonder whether such decisions make sense many years after the events, when the historicization of those events and objects had transformed them, their ideological charge diminished, with the painful and vivid memory fading away among the survivors.
And in fact, all throughout Europe, the monuments of Fascism and Nazism, which for various reasons were not destroyed by war or immediately afterwards, have been preserved, albeit with different attitudes.
Take for instance the stadium of Nuremberg in Germany that hosted the general gatherings of the Nazi regime and is today hanging in between the need for conservation and protection typical of a building charged with a strong historical value and the objective impossibility of spending public or private money to restore it. Anyone who visited it, probably was left with the bitter feeling that everyone is waiting with some confidence for the stadium to simply fall in decay on its own.
A different attitude may be observed towards some likewise uncomfortable monuments in Italy, such as the EUR or Foro Italico complex in Rome. In more than one occasion it has been requested to erase Mussolini’s name from the obelisk towering at the center of the sportive complex, but this operation has never been put into practice.
But even if, what would actually change? Scratching off of the name of those who commissioned that monument would actually erase their deeds? By removing the historical materiality of Fascism from our collective consciousness wouldn’t we risk, on the contrary, to relegate its symbols and artworks to mere pieces of urban furniture? At the core of the debate lies the inability to deal through the lens of history with a period that divided Italy dramatically and of which we are still – rightly – ashamed.
One may argue that evidently, as in the case of slavers’ statues, those stories are still deeply rooted in our present, that people’s lives have been and still are strongly affected by the consequences of the actions carried out by the men portrayed and celebrated by those monuments.
However, if the factor that should lead us in deciding whether or not to preserve an asset, whether to consider it Heritage, is its historicization, a collective ataraxy in reading it, then how long should we wait in order to historicize an event? Who decides it?
Thousands of Jews gather every day at the Wailing Wall in Jerusalem to mourn and bemoan the destruction of the Temple by the Romans and the loss of freedom. If today the Jewish community would call our attention on it, would it be right by the same principle to knock down the Arch of Titus in the Roman Forum or at least “relocate” the reliefs that celebrate the victory of the Emperor and the depredation of the Temple of Jerusalem?
Even more important, shouldn’t we as archaeologists imbued with processualist and post-processualist constructs, argue that the worst evil in our work is choosing what to or not to save? What to consider important and what to neglect?
And when the removal or attempt to remove monuments affects symbols that we cherish, as happened recently with the well-known motion of the European Parliament which proposed to equate the crimes of Communism and Nazism and to condemn the use of communist symbols, where do we place ourselves?
In some cases the problem does not even cover events so close to us, such as the case of the intense debate sparked over the monuments dedicated to Christopher Columbus in many American countries: while in Europe Genoa and Barcelona compete among each other for having been the home of the “discoverer” of the Americas – yet another example of Eurocentric view that of the discovery of lands, as if they did not exist before, like the definition of west and east, well this is for another post – in US the anti-racist movement and those fighting for the rights of native Americans demand the destruction of all the effigies of the explorer considered as the symbol of slave trade and the massacres perpetrated in the name of colonization and the abolishment of any celebration on Columbus Day.
Speaking of historicization, at the other end of the spectrum, in 1889 one of the first acts passed by the newly formed Italian State, once Rome was conquered to the Pope, was the erection in Campo de’ Fiori of a statue commemorating the execution by burning of Giordano Bruno in 1600. Later on in 1929, during the negotiations that led to the Lateran pacts, Pope Pius XI demanded the removal of the statue and only the fear of riots and disorders such as those that had occurred 40 years earlier led Mussolini to refuse. However, he forbade any commemoration of the philosopher from taking place in the square.
I stated it previously, but perhaps it is worth repeating: the removal of uncomfortable or controversial symbols from the places that were built thanks to the figures celebrated by those symbols, does not risk to be a mere act of cleaning up our consciousness about those places without actually explaining their genesis and origin?
Let me clarify: the London Docks are one of my favorite spots where to have a drink anytime I am in the city, they are so gentrified to have become a top destination for tourists and bourgeois wandering in the city. However, those docks were built with the blood of thousands of slaves first and then workers, who made the fortune of the shipping and trade companies based there with their sweat. Thus the question: is it better to erase the traces of the past by knocking down the statues of slave traders, or to explain the historical context in which those monuments were erected and the pain that the people represented have caused? When in 2007 Italy chose to return the Axum obelisk to Ethiopia, which had been placed after the Italian colonial wars of the 1930s in Piazza Capena in Rome, a heated debate sparked off over the appropriateness of such a decision: some argued in favor considering the decision a sign of reconciliation with a country that had been brutally invaded and colonized by Italy, and some reacted against by saying that those events had now long passed and it no longer made sense to return such a symbol.
I do ask myself another question: today how many do know about the shameful history of Italian colonialism, the untold suffering inflicted to the Ethiopian population, the number of dead caused? Returning back the obelisk, in my opinion, may have perhaps contributed to facilitating our diplomatic relations with Ethiopia, but it has also entailed a sort of collective clearing of our conscience, that gesture made us feel right and entitled to erase the memory of what happened. Should we have kept the obelisk in Italy? Probably not, but I have the feeling that its return did not necessarily have a positive effect on raising our collective awareness, simply because that beau geste was not coupled with a systematic operation of re-education on that painful part of our past.
Coming back to the question posed at the beginning, does a community have the right to choose from time to time what is or is not worthy of becoming Heritage? I fear there is no straightforward answer to it, this is such a complex process and connatural right that it is impossible to be in favor or against it. Yet, isn’t this connatural right that gave rise to the need for Heritage management charts and regulations? Isn’t it because a small group of people, an élite if you wish, believed that something was worth saving that we drafted international agreements for the protection and conservation of our Cultural Heritage? One may therefore ask, is the shift in what is perceived of cultural interest due to a shift in the beliefs and attitudes of that very small group of people or to a shift in the consciousness of a wider community, assuming that such category exists and makes sense? I believe that it is our duty – and by “our” I mean exactly that small group of people (the elite) dealing with Heritage – to address this issue with great attention and intellectual honesty before accepting as a fact the pure right of a more or less self-proclaimed community to destroy, modify or relocate a cultural object, even when that group largely represents our ideas as this is case.
During the revolt of the gilets jaunes movement in France, the assault to some of the main monuments of Paris were perpetrated in the name of the destruction of the symbols of French imperialism. Can anyone deny that the Arc de Triomphe is indeed the embodiment of imperialism in Napoleonic France?
Are we ready to accept that that city’s – and more widely Western – landmark should be then destroyed in order to finally detach from our imperial past?
Answer as you wish, as long as you do it honestly and not just pour épater le bourgeois.
*Ambaradan is an Italian expression used to define a chaotic, frantic situation: it stems from the battle of Amba Aradam (Ethiopia 1936) at the end of which Italian soldiers led by Marshal Pietro Badoglio massacred thousands of Ethiopian civilians. Badoglio, who won that battle dropping 40 tons of mustard gas on the fugitives, was also the first Prime Minister elected by the Italian Governement after the fall of Fascism. The term is still commonly used as a figure of speech and in the toponymy of Italian cities, with no awareness of its dreadful origin.
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Spunti e ragionamenti intelligenti, che però non tengono in considerazione il fatto che riqualificare un edificio è possibile, una statua no.
Poi, delle varie isterie di massa, se ne può parlare.
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Grazie Francesco per l’osservazione puntuale!
In realtá peró se pensi alla proposta di Banksy per la statua di Edward Colston potrebbe essere interpretata come un’opera di “riqualificazione”!
https://boingboing.net/2020/06/11/banksys-brilliant-idea-to-ma.html
https://www.dezeen.com/2020/06/11/banksy-edward-colston-statue-slave-trader/